Chi si occupa di scienze umane- o tenta o finge- ha bisogno di sapere altrettanto dell’occhio che vede, l’io fantomatico della filosofia occidentale, quanto dell’oggetto veduto: noi .
Potrà sembrare strano come il pensiero occidentale abbia fatto molto affidamento sulla consistenza di parolette brevi e di uso ininterrotto, quali i pronomi personali io e noi. Benché parolette, le pagine della filosofia moderna si sono riempite delle più disparate accezioni, funzioni, e interpretazioni della parola io, legando ad essa un profondissimo, infinito, eterno, epistemologico significato. Non a caso, esso fonda le radici “nell’umanesimo” occidentale. La seconda paroletta: noi, entra in contrasto, con la prima io, quando, già ad opera di Pascal prima e, soprattutto, Lévi-Strauss dopo, viene considerato da odiare. L’io, che per secoli ha retto il pensiero umano, diviene non soltanto odioso ma anche impertinente e indesiderato alla presenza del noi.
Se l’io si può considerare come l’obbiettivo della vita interna, come il baluardo della conoscenza filosofica pura del sé divenendo, nella sua complessità, ideale di unità esistenziale; il noi non si pone come alternativa contraria a ciò o equivalente a ciò. Il noi si pone direttamente come altro e nuovo ovvero come obbiettivo differente da raggiungere. Il noi è un obbiettivo che assume le sembianze più di un riapro di ripiego, un solido giaciglio nel quale sostare piuttosto che quelle di una nemesi. L’io, antico e pesante, è stato riempito con il peso dell’unità della conoscenza del sé; questa ricerca di conoscenza tuttavia, a causa della sua complessità, ha prodotto più divisioni che unità remando estremamente contro l’intento originario, e necessario, di unità. L’io ha perso pertanto lo stato di caposaldo di sicurezza diventando, al contrario, ancora sicura di instabilità e separazione! Questa difficoltà di ricerca è dovuta dalla dualità intrinseca dell’io tra essere e avere. Entrambi questi caratteri appartengono all’io il quale è specchio della percezione individuale del sé. Definire il rapporto di essere e avere all’interno di ogni individuo implica la conoscenza del fine esistenziale. L’io, o essere o avere, o più precisamente coscienza e materia esprime la sua unità attraverso una estrema complessità di forma. Se la forma fiorisce di spazi, l’io perde di unità. Nel mezzo della separazione “filosofica”, il pensiero diventa fragile vittima delle insicurezze e della sua potenziale morte.
Il noi, al contrario, è senza dubbio, fonte di sicurezza: il pensiero (l’individuo) vi trova rifugio, sollievo, protezione, perché nel noi non vi è solamente una condivisione di conoscenze (l’io), ma fiducia e compassione. La compassione si è erta quale punto di conforto per i fallimenti della ricerca dell’io. La mancata conoscenza, richiesta dall’io, implica per il pensiero, o per l’individuo, uno stato di isolamento dal tessuto sociale che il pensiero-individuo ha creato nel corso della storia umana. Il noi questo abbandono, a seguito di un costrittivo processo di formazione, non lo consente. Un passaggio di consegna, comprensibile se si considera il contenuto illusorio–apparentemente– di conoscenza offerto dall’io; il noi offre, invece, una illusione più, praticamente , accettabile: garantisce una sicurezza almeno all’individuo, se non al suo pensiero, il quale, il pensiero, può, a sua volta, essere omologato al noi dell’individuo.
Il paradosso dell’unità instabile non ha viziato ( il vizio per cui l’unità nasce da una complessa instabilità di elementi da unire) solamente la ricerca dell’io, abbandonato a causa di ciò. Lo stesso noi presenta , al suo interno, un principio di instabilità: i noi sono, infatti, molteplici e non unitari. Che dire dell’io? L’io non è molteplice, esso è unitario ma di esso ne esistono diverse interpretazioni; è la difficoltà nel raggiungimento anche una sola di quelle interpretazioni a renderlo instabile. Tutte le interpretazioni dell’io della filosofia si riconducono sempre alla stessa idea unitaria di io qualunque questa interpretazione sia. Il noi presenta, invece, delle instabilità, cannibali, al suo interno, sono instabilità che si presentato sotto forma di diverse tipologie di noi. Sono tipologie di noi, non interpretazioni. Esistono sempre molti noi di cui è possibile fare parte, a cominciare da quelli più effimeri e contingenti ( il gruppo dei legami temporanei) noi duraturi che coincidono con le istituzioni sociali fondamentali ( gli amori). Altri noi sono soverchianti e indomiti, con una tendenza tiranna e annichilente nei riguardi dei noi meno propensi al controllo del pensiero dell’individuo quanto piuttosto alla omologazione del solo individuo. Un esempio di un noi tiranno è l’appartenenza al concetto di umanità; qui non solo l’individuo deve omologarsi , al fine di ottenere sicurezza, ma anche il suo pensiero è costretto a una resa-costrizione- a una ideologia che distacca, l’individuo, da tutti gli altri noi ai quali appartiene. Il noi come umanità è un noi altamente instabile, madre di problemi immanentemente, e fatalmente ciclici (concetto di patria: non esiste patria o gruppo senza una nemesi che minaccia l’unione del gruppo ). Un noi che per vivere necessita di un ingente sacrificio di libertà e l’eliminazione quasi totale dell’io: esige devozione e cieca fiducia. Egli rappresenta il chimerico quadro di un noi perfetto e ontologicamente corretto, una perfezione di appartenenza che deve essere protetta e mantenuta ad ogni costo. La permanenza del resto dei noi non è necessaria. Il terribile dramma del noi è che cresce costantemente, ed è, per sua natura, orientato a questa crescita gerarchica insensibile e insana. Se è vero che l’unico fine ultimo dell’esistenza individuale, come suggerito dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, è il raggiungimento di una mistica e massima conoscenza cosmologica dell’individuo quanto nella materia chiamata punto Omega,seguendo la via dell’io esso nascerà dall’unione tra coscienza (pensiero) e materia (individuo). Seguendo le vie del noi, esso nascerà da una semplice omologazione antropocentrica del pensiero-individuo; relegando nuovamente, al terzo, e incomodo, altro il compito di trovare la risposta alla domanda ” a che fine tutto questo esistere ? ”