Pecios n.16 I cinici persi

I cinici affermavano che la vera felicità non si ottiene grazie al potere politico e alla ricchezza, bensì disprezzando esteriorità casuali ed effimere. Tra i rifiuti giacciono gli amori e le amicizie.

Si dice che Socrate, osservando l’abbondare delle merci in vendita su una bancarellara, commentasse :” Di queste cose non sento il bisogno!”

Si dice che Diogene di Sinope un giorno, tranquillo al sole, ricevette la visita di Alessandro Magno. “Chiedimi ciò che vuoi” disse il sovrano.

“Lasciami il mio sole” rispose Diogene invitando il sovrano a spostarsi per lasciare che i raggi continuassero a raggiungere il suo volto.

Al giorno d’oggi, i termini “cinico” e “cinismo”, vengono usati per indicare un atteggiamento insensibile e indifferente verso gli altri esserei umani. Tra i rifiuti di ciò giace l’intelletto.

Pecios n.14 Noi

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Chi si occupa di scienze umane- o tenta o finge- ha bisogno di sapere altrettanto dell’occhio che vede, l’io fantomatico della filosofia occidentale, quanto dell’oggetto veduto: noi .

Potrà sembrare strano come il pensiero occidentale abbia fatto molto affidamento sulla consistenza di parolette brevi e  di uso ininterrotto, quali i pronomi personali io e noi. Benché parolette, le pagine della filosofia moderna si sono riempite delle più disparate accezioni, funzioni, e interpretazioni della parola io, legando ad essa un profondissimo, infinito, eterno, epistemologico significato. Non a  caso, esso fonda le radici “nell’umanesimo” occidentale.  La seconda paroletta: noi, entra in contrasto, con la prima io, quando, già ad opera di Pascal prima e, soprattutto, Lévi-Strauss dopo, viene considerato da odiare. L’io, che per secoli ha retto il pensiero umano, diviene non soltanto odioso  ma anche impertinente e indesiderato alla presenza del noi.

Se l’io si può considerare come l’obbiettivo della vita interna, come il baluardo della conoscenza filosofica pura del sé divenendo, nella sua complessità,  ideale di unità esistenziale; il noi non si pone come alternativa contraria a ciò o equivalente a ciò.  Il noi si pone direttamente come altro e nuovo ovvero come obbiettivo differente da raggiungere. Il noi è un obbiettivo che assume le sembianze più di un riapro di ripiego, un solido giaciglio nel quale sostare piuttosto che quelle di una nemesi. L’io, antico e pesante, è stato riempito con il peso dell’unità della conoscenza del ; questa ricerca di conoscenza tuttavia, a causa della sua complessità, ha prodotto più divisioni che unità remando estremamente contro l’intento originario, e necessario, di unità. L’io ha perso pertanto lo stato di caposaldo di sicurezza diventando, al contrario, ancora sicura di instabilità e separazione! Questa difficoltà di ricerca è dovuta dalla dualità intrinseca dell’io tra essere e avere. Entrambi questi caratteri appartengono all’io il quale è specchio della percezione individuale del sé. Definire il rapporto di essere e avere all’interno di ogni individuo implica la conoscenza del fine esistenziale. L’io, o essere o avere, o più precisamente coscienza e materia esprime la sua unità attraverso una estrema complessità di forma. Se la forma fiorisce di spazi, l’io perde di unità. Nel mezzo della separazione “filosofica”, il pensiero diventa fragile vittima delle insicurezze e della sua potenziale morte.

Il noi, al contrario, è senza dubbio, fonte di sicurezza: il pensiero (l’individuo) vi trova rifugio, sollievo, protezione, perché nel noi non vi è solamente una condivisione di conoscenze (l’io), ma fiducia e compassione. La compassione si è erta quale punto di conforto per i fallimenti della ricerca dell’io. La mancata conoscenza, richiesta dall’io, implica per il pensiero, o per l’individuo, uno stato di isolamento dal tessuto sociale che il pensiero-individuo ha creato nel corso della storia umana. Il noi questo abbandono, a seguito di un costrittivo processo di formazione, non lo consente. Un passaggio di consegna, comprensibile se si considera il contenuto illusorioapparentemente di conoscenza offerto dall’io; il noi offre, invece, una illusione più, praticamente , accettabile: garantisce una sicurezza almeno all’individuo, se non al suo pensiero, il quale, il pensiero, può, a sua volta, essere omologato al noi dell’individuo.

Il paradosso dell’unità instabile non ha viziato ( il vizio per cui l’unità nasce da una complessa instabilità di elementi da unire) solamente la ricerca dell’io, abbandonato a causa di ciò. Lo stesso noi presenta , al suo interno, un principio di instabilità: i noi sono, infatti, molteplici e non unitari. Che dire dell’io? L’io non è molteplice, esso è unitario ma di esso ne esistono diverse interpretazioni;  è la difficoltà nel raggiungimento anche una sola di quelle interpretazioni a renderlo instabile. Tutte le interpretazioni dell’io della filosofia si riconducono sempre alla stessa idea unitaria di io qualunque questa interpretazione sia. Il noi presenta, invece, delle instabilità, cannibali, al suo interno, sono instabilità che si presentato sotto forma di diverse tipologie di noi. Sono tipologie di noi, non interpretazioni. Esistono sempre molti noi di cui è possibile fare parte, a cominciare da quelli più effimeri e contingenti ( il gruppo dei legami temporanei) noi duraturi che coincidono con le istituzioni sociali fondamentali ( gli amori). Altri noi sono soverchianti e indomiti, con una tendenza tiranna e annichilente nei riguardi dei noi meno propensi al controllo del pensiero dell’individuo quanto piuttosto alla omologazione del solo individuo. Un esempio di un noi tiranno è l’appartenenza al concetto di umanità; qui non solo l’individuo deve omologarsi , al fine di ottenere sicurezza, ma anche il suo pensiero è costretto a una resa-costrizione- a una ideologia che distacca, l’individuo, da tutti gli altri noi ai quali appartiene. Il noi come umanità è un noi altamente instabile, madre di  problemi immanentemente, e fatalmente ciclici (concetto di patria: non esiste patria o gruppo senza una nemesi che minaccia l’unione del gruppo ).  Un noi che per vivere necessita di un ingente sacrificio di libertà e l’eliminazione quasi totale dell’io: esige devozione e cieca fiducia. Egli rappresenta il chimerico quadro di un noi perfetto e ontologicamente corretto, una perfezione di appartenenza che deve essere protetta e mantenuta ad ogni costo. La permanenza del resto dei noi non è necessaria. Il terribile dramma del noi è che cresce costantemente, ed è, per sua natura, orientato a questa crescita gerarchica insensibile e insana. Se è vero che l’unico fine ultimo  dell’esistenza individuale, come suggerito dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, è il raggiungimento di una mistica e massima conoscenza cosmologica dell’individuo quanto nella materia chiamata punto  Omega,seguendo la via dell’io esso nascerà dall’unione tra coscienza (pensiero) e materia (individuo). Seguendo le vie del noi, esso nascerà da una semplice omologazione  antropocentrica del pensiero-individuo; relegando nuovamente, al terzo, e incomodo, altro il compito di trovare la risposta alla domanda ” a che fine tutto questo esistere ? ”  

About us

drawing-layerexportL’occhio vispo è l’occhio del reietto, del folle, della nullità che giace all’angolo della strada che scruta, guarda, osserva e riflette. E’ l’occhio tragico dell’uomo solo, senza gioia, senza speranza, né arte, né parte.

Quest’occhio ha la vista sfocata dalle lacrime ed è rosso per il piangere costante.

L’occhio vispo è un occhio abituato al tragico, alla tristezza malinconica; conosce solo i toni di grigio ma, quando è felice, riesce a distinguere il bianco dal nero, nitidamente.

Rivolge spesso il suo sguardo al cielo e scambia l’arcobaleno per la “sciarpa del cielo”.

Di notte osserva la luna e se ne innamora; si veste di bianco, indossa un capello conico e versa tre lacrime per il suo amore desolato.

Passa il suo sguardo sui muri e conta le loro spille che altro non sono che lucertole.

Quando guarda gli uomini e li vede ridere, se ne disgusta; quando osserva gli uomini e li vede piangere, se ne disgusta; quando guarda il riflesso dei suoi occhi in uno specchio e scopre che sono gli occhi di un uomo, piange.

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Pecios n.12 Passioni e principi

14671088_10210187426749789_7861549330527354001_nPassioni e principi hanno in comune l’irresponsabilità di non badare alle conseguenze. Il dubbio che un principio possa non essere, in fin dei conti, altro che una passione aumentata se si considera che il primo, o ultimo, giudizio sembra debba necessariamente essere, per la sua sola posizione, un giudizio di valore. E adesso, osservandoli una seconda volta, trovo che i due motti sono imprevedibilmente prossimi.

Pecios n. 11 Ridi che ti passa, forse.

Si indossa sempre il volto serio ormai, non si sorride più; si tiene il broncio. Il volto fatica a gioire; i muscoli sono contratti, proprio, un poco più su, quella bocca, quelle guance non salgono. Non c’è più spazio per il sorriso. Eppure bisogna ridere, in qualche modo bisogna sorridere perché il solo piangere non fa bene.
Urge una soluzione.
Affermare che la piega della bocca verso il basso che descrive lo stato infelice altro non è che un bellissimo sorriso sotto sopra, significa omaggiare l’ottimismo o la cinica malinconia?

Commentatore seriale, curatore nuova rubrica.

La redazione sta vivendo una crescita esponenziale! Tanto è il lavoro da fare che non ce la fa più! Insomma la redazione ricerca un disgraziato che commenti tutto e di più, perché nessuno lo fa. Come detto siamo il top di gamma dei siti web mondiali!

In altre parole cerchiamo uno che commenti tutti i nostri post e lasci likes a profusione.

La stessa persona, o schiavo che dir si voglia, dovrà occuparsi di una nuova rubrica: “Sui Pecios”, ovvero una rubrica integrativa dei Pecios del Poeta Plagiatore in cui i misticismi e la confusione dei suoi scritti  vengono una volta per tutte svelati.

Retribuzione

La speranza di riceverne una. Meglio di così? Immaginare di esser pagati tanto è ancora meglio che ricever solo due spicci per piangere, poi, i soldi che non si hanno. La fantasia, quella, invece è imbattibile!

Inviare candidatura locchiovispo@gmail.com

p.s

ricerchiamo solo brillanti laureati! Quindi dateci dentro con le lucine di natele! Se non laureati assolutamente brillanti! Lo sanno cani e porci, porci e cani, porci-cani, porci, e solo cani che la brillantezza è sinonimo assoluto di qualità!

POSIZIONE CHIUSA. GRAZIE A TUTTI ALLA PROSSIMA:

Pecios n.10 Cattiva abitudine.

Un giorno vidi un uomo in piedi sul bordo di un mortale precipizio. Un lunga via a perdita d’occhio verso il basso.

wp_20161022_15_02_21_pro“Non farlo! Non buttarti!” gli urlai d’istinto appena lo vidi.

L’uomo mi guardò perplesso.

“Il suicidio non risolve nulla, qualsiasi cosa sia successa! La vita è preziosa!” aggiunsi subito.

“Chi ha mai pensato al suicidio?” mi disse sedendosi sul bordo.

“Scendi di lì dunque che è pericoloso, con un niente puoi cadere”  dissi io.

Sorrise, scosse la testa con desolazione. “Non hai capito. Io non parlo di suicidio perché non c’è nessuna vita per la quale suicidarsi. Non c’è nulla da terminare, nulla per il quale urlare la faccio finita. Finita cosa?”

“Non capisco non ti seguo”  dissi.

Scuotendo ancora la testa disse l’uomo “ Il fumo è un vizio, un’abitudine cattiva più che wp_20161022_15_01_48_pro
altro. Si inizia a fumare un po’ per caso, per circostanza, per vanto, per amicizia, debolezza,  per mille altre motivazioni; semplicemente si inizia a fumare e presto diviene abitudine. Una, due, tre, infinite sigarette diventano l’abitudine quotidiana non si contano più. Eppure ah! Se il fumatore le fuma! Ah se non gioisce di ogni attimo passato con una di loro. Tossisce talvolta? Certo. Gli manca il respiro? Ha la voce rauca? Puoi giurarci. Egli lo sa, fa parte del gioco. Lo sa, lo accetta; vuole giocare e gioca. Ora, dimmi, questo fumatore, questo fumatore ideale, il giorno che decide di smettere soffrirà? Risentirà,  magari, della rinuncia di quelle sigarette benché consapevole del male che a lui hanno causato?”

“Penso di si” risposi.

“Tu fumi” mi domandò l’uomo.

“No, non fumo” risposi.

“Sarebbe difficile smettere di fumare per te?” domandò.

“Che domanda è mai questa? Come faccio a smettere di fumare se non ho mai fumato? Come faccio a smettere di fare qualcosa che non ho mai iniziato a fare?” risposi.

“Tu lo chiami fumo questo qualcosa mai iniziato, io lo chiamo vita. Come faccio a smettere qualcosa che non ho mai iniziato a fare? Io non ho mai iniziato a vivere, io non vivo. Il suicidio è per me un significato sconosciuto senza nessuna semantica: una parola fallace e vuota legata ad un’azione che, anche se malamente, deve essere iniziata in qualche modo e in un qualche, lontano o vicino, tempo. Non temo di cadere nel vuoto, così come non condivido la tua preoccupazione per la mia sbilenca posizione. Io non vivo, ciò che sono ora su questo precipizio sarebbe la stessa identica cosa sul suo fondo. Senza vita, capirai bene, che la stanchezza per il semplice esistere divampa non appena la vita non si accende” rispose l’uomo.

Io non dissi più nulla.

Pecios n.9 Esistono due tipi di lettere: quelle d’amore e quelle d’addio.

Time it was
And what a time it was, it was
A time of innocence
A time of confidences.

Esistono due tipi di lettere:  quelle d’amore e quelle d’addio.

Le prime sono semplici, parlano di come dovrebbe essere un amore. Esse contengono le rabbie, le gioie, le frustrazioni e i ritorni. Sono lettere che si scrivano in ogni situazione senza paura di essere derisi o di suscitare il riso sul volto degli altri. Si scrivono sempre; quando l’amore si allontana, quando si sogna, si spera si promette. In quelle lettere si promette tutto, di tutto: l’anima, il cuore i pensieri le risa, le gioie si arriva addirittura a promettere la vita. Si, la vita per amore.  Nelle stesse lettere si parla anche di rammarico e rassegnazione quando un amore finisce ad esempio. Quelle no, non sono lettere di addio, sono lettere d’amore anche quelle; sono una semplice rottura del meccanismo “sentimento”. Si rompe un pochino e dopo, forse mai, in qualche modo si riaggiusta. Tutto torna al suo posto come può. Cigolante, magari fuori asse, il meccanismo riprende a funzionare quanto è in  grado di farlo.  Talvolta sono lettere anonime senza un particolare destinatario.  Lettere scritte per amori ideali o destinate agli ideali stessi. Sono lettere solitarie, nate di nascosto, nascoste dal pensiero sognante di un amore mai realizzato, mai sbocciato e che mai si realizzerà. Quelle sono le più belle, le più innocenti, le più, sublimemente vere: intrise di malinconica felicità. Le parole si tratteggiano, sempre, sui volti delle persone desiderate, o sulle idee, come  detto. Sono parole ispirate da un sogno d’amore da un fumo romantico.  Queste lettere veicolano le parole, le conducono e le consegnano, nei cuori (romanticheria) di chi si ama (illusione, abbaglio momentaneo, verità tradita, pena, tacito accordo fra parti, concordato). Qualunque sia l’esito quelle lettere non saranno mai segno né di debolezza né di vergogna. Non imbarazzo, risentimento o rammarico.  Quelle lettere sono e saranno la scelta giusta da prendere di fronte a ogni bivio. Inevitabile sono fate così loro! Avranno sempre la precedenza  facendosi notare con ogni mezzo. Urlano al miracolo quando un prestigiatore nasconde le carte, si disperano quando un petalo di rosa cade, scambiano le botte per una bótte. Si accendono, si animano subito, perdono la razionalità. Lo fanno ogni volta; come ogni volta l’amore viene spesso confuso con altro: viene invocato celebrato, idolatrato eletto re! Lo stesso re viene desolatamente destituito, talvolta dimenticato. L’amore viene anche maltrattato: senza rispetto viene sfruttato e colpevolizzato per i danni creati. Sempre innocente l’amore non fa altro che essere ciò che è. Accuse inutili, tutte inutili. Dal canto suo non ci sarà altro che il dispiacere per i modi in cui è stato trattato. Attende delle scuse che mai arriveranno. La lettera rimarrà sempre il granello dell’amarezza dell’amore nel “sentimento” altrui.

 

 

Le lettere d’addio sono le peggiori con le quali dialogare. Sono più uniche che rare. L’amore non lo è. Anzi non lo è mai: unico. L’addio si.  L’addio è la forma massima di espressione dell’odio, della rassegnazione, della soverchiante sconfitta. L’addio è la conseguenza di una stasi nata eterea divenuta immanente, ultimo grido di orgoglio. Queste lettere portano le parole disperate della fine. Il viaggio termina lì, in quel preciso punto. Non c’è più nulla da fare. Si saluta rassegnati la vita annichilita e annichilente. Basta difenderla! Lei innocente non è! Non lo è mai! Paradossale macchina mortale, la vita  sguazza nell’addio come il ratto nella fogna. Urla indignata, all’apparenza, ma gioisce di un profondo godimento per la fine. Gli addii non hanno catarsi, l’amore lo ha, gli addii non hanno memoria o rispetto per il meccanismo “sentimento”, l’amore si. Gli addii sono la confessione dolente di un abbandono estremo della vita accusata,e complice, di vigliaccheria, servilismo, smania, ingordigia, avidità, cupidigia e infingardaggine nonché, più di tutto, complice di codardia. L’unica luce che possiedono, queste lettere d’addio, sono il coraggio di essere scritte da chi è giunto alla fine a causa del contenuto che andranno portando.