Pecios n.56 Novelle di un novizio 6/10 Teatro. Parte 2

Non ci volle tanto prima di incontrare l’Attore. Stava seduto su un muretto: gambe penzolanti. Vestiva una casacca a losanghe colorate. Pareva Arlecchino. Al piede portava una catena con una grossa palla nera. Più che un attore sembrava un prigioniero: immobilizzato da un pesante fardello. Le losanghe richiamavano le righe delle sbarre della prigionia. Alla mia vista si gettò in avanti con un balzo. Tutto un sforzo addominale in avanti, atterrando in piedi di fronte a me.WP_20170320_14_45_16_Pro

I suoi occhi erano colmi di finzione, fingevano di trasmettere sicurezza, consapevolezza. Era un attore pessimo. Con occhi del genere, spezzati dal pianto, non avrebbe mai potuto ingannare nessuno. Neanche se stesso. Era più perso di me. Perché il mio maestro mi aveva mandato da lui?

“Spero tu non ti faccia pagare per la tua misera arte” dissi io subito in prima battuta.

“Spero tu abbia un cervello più grande che questo granello” rispose lui gettando un pezzetto di materia verso di me.

Non indossavo nulla: né armi né armatura. Ero solo io, spoglio, inerme perso nel vento in balia del vento.

“Dimmi, dimmi di te? Fai pagare tu invece?” domandò l’Attore.

Quell’essere tristemente vivo non era affatto stupido. Le parole del maestro tornarono nel fiume del pensiero “ Non è detto che tu possa imparare a leggerlo questo mondo e, tra le faglie dell’infinito senso del fine, comprenderlo”. Il mio maestro. Mi mancava. Mi manca.

“No” risposi “non c’è niente da guardare qui. Non recito, non faccio io. Lo spettacolo di un morto cos’è?”

“Lo vedo io il tuo volto. Quella maschera di legno, consunta e logora, non regge più. Sei patetico” disse lui.

Portai le mani al volto sfiorandone la superficie. Ruvida, piena di schegge, crepata e dolente. Una maschera a pezzi. Il sottilissimo filo che reggeva la barriera del mio piagnucolate dolore si fracassò con un colpo d’aria improvviso. Colpì forte come un pugno.

Scosso e dolente, il mio volto apparve alla luce e gli occhi dell’Attore, all’incrocio del mio sguardo, si creparono nel suono sordo della frattura. Rimase immobile, non mostrò alcun cenno di dolore. Composto rimise tutto in ordine rimettendosi seduto guardandomi con supponenza e severo sguardo, quasi annoiato.

“Avere o essere dunque? Ti sei perso nel viaggio del pensiero? Non è così? Ne ho visti di viaggiatori io, tutti speciali, tutti con l’idea di essere speciali, unici per il viaggio che hanno intrapreso…”

“La mia anima si è rotta in frantumi. In mille pezzi è caduta sulle scale” lo interruppi confessandomi bloccando il suo flusso di parole.

L’Attore puntò i suoi occhi infastiditi dalla mia intromissione su di me. Rimase al gioco senza rivendicare lo spazio della sua riflessione.

“Dove portavano queste scale?” domandò

“Vero la speranza credo. Non ne sono mai stato sicuro”  ero convinto di trovarla in realtà.

“Scendevano o salivano?”

“Erano solo scale. Salire è faticoso, a scendere se perdi il ritmo, inciampi, cadi e ti spezzi il collo”

Scosse la testa. Questa volta era profondamente annoiato, annoiato da uno spettacolo già visto, già recitato da dieci, cento, mille altre persone. O viaggiatori come l’Attore aveva detto.

“Non andare oltre, ti prego. Saltiamo il baratro e atterriamo direttamente sul fondo. Le risposte giacciono sul fondo”

Sapevo che qualcosa stava per abbattersi su di me. La cicatrice che portavo sul petto iniziò ad aprirsi e il sangue a scorrere: come sabbia.

“ La verità? Non c’è nulla. Semplicemente nulla. Tutto questo gioco di azione e reazione, causa ed effetto e il tutto che si trasforma; altro non è che la vita: vivere. È brutale e fa schifo Non poteva essere altro. Io la mia anima l’ho persa da sempre. L’ho vista inclinarsi, creparsi e rompersi, andare in frantumi come la tua. Sono stato disperato, perso, disperso. Solo immerso nel mantra del tormento agonico dell’insicurezza dell’incertezza. Ho visto la mia identità fuggire disintegrarsi in un fracasso”

“Che disastro”

“La verità di questo mondo è un’agonia che non ha fine. La verità è la consapevolezza dell’agonia. Ho raccolto i pezzi. Piccoli frammenti d’anima e esistenza sparsi in ogni dove. Rimetterli tutti insieme non è possibile e non lo è stato” abbassò lo sguardo fisso verso la terra e il tono della voce scivolò nel ricordo mnemonico del trauma. “Ho strisciato tra le ferite e il sangue del dispiacere. Ho afferrato tutto, tutto quello che potevo. Con le mani piene di frammenti ho messo tutto in un gran mortaio, ho pestato e calpestato ciò che di me rimaneva. Ho sacrificato me stesso come pestello inarrestabile. Ho distrutto tutto di me”

Lo guardavo correre nei ricordi. Mi domandavo che volto avessero quelle immagini del suo passato.

“La polvere e le ceneri del mio spirito lo ho poi gettate nella fornace e lì lavorate, temperate e modellate. Ho cercato di ricreare la mia anima, il mio ricordo. Preservare il senso del ricordo per sentirmi vivo. Ancora una volta e per un attimo. Tutto compresso in quel vetro artigianale sono tornato  a camminare senza più vergogna di morire. Da quel giorno sento la pienezza dell’anima nel vuoto del nulla che provo”

“È magnifico, un miracolo” esclamai affascinato da quel racconto.

“È una condanna” aggiunse secco “ io monto e rimonto le sensazioni come voglio, accendo e spengo le lacrime i sorrisi. È tutto un divenire e giocare di forme per me. I sentimenti vanno e vengono. Li conosco tutti, conosciuti tutti. Porto le ferite di tutti loro. Non mi fanno più paura. Quando sono solo ne prendo uno dal repertorio e lo vivo”

“Cosa provi? Com’è?”

“Io vivo nell’attimo del pensiero. Io piango al pensiero di piangere, mi innamoro del pensiero di essere innamorato, di gioire del pensiero di essere gioioso e via discorrendo…”

“Come riesci, come fai? Come fai a spaziare senza perderti, senza rimarne ucciso in tutto questo gioco di specchi e di rincorse in questo mare d’infinità senza risposta?”

WP_20170320_14_51_56_Pro“Sono morto e rinato nell’elemento del semplice pensiero. La materia di cui erano composti i miei pensieri è svanita; loro, i pensieri, sublimati hanno lasciato il mio corpo” si toccò il petto e aggiunse “ho raccolto lo scarto lasciato dentro di me come una fotografia del ricordo; sparata, poi, all’inseguimento del pensiero ideale”

Parole vane e vaneggianti quelle dell’Attore che terminarono in una sua sonora risata indicando con il braccio teso quello che dietro di me stava accadendo. Si lasciò cadere all’indietro e come tutto quello che conoscevo, svanì anche lui.  Perplesso mi voltai e vidi la Bestia nuovamente davanti a me. Questa volta era vicinissima, a pochi metri da me.  Io ero inerme, desolato, una foglia al vento, insicuro, incerto, perso, perduto, sguarnito e più di tutto ero solo.

Sabbia rossa irruppe fuori dal mio torace; le mie mani tremanti cercarono le armi. Questa volta non c’erano né spade né fucili.Solo parole.

Pecios n.55 Novelle di un novizio 6/10 Teatro. Parte 1

Dopo un lungo peregrinare fra le spine del pensiero, il mio corpo era coperto di cicatrici. Cicatrici della noia; quelle che nessuno vede e non hanno mai sanguinato.

Avevo bisogno di tornarne a essere rondinotto ancora una volta, tornare al nido per piangere senza vergogna per il mondo che avevo immaginato, e sognato. Un semplice sogno che mi aveva innamorato.  Varcate le porte della scuola di vita mi recai all’Apice dell’Esistenza, lì trovai il mio maestro accasciato sulle gradinate d’entrata. Reggeva le mani al petto e vaneggiava con voce flebile. Lo faceva sempre il mio maestro: recitava la sua morte. Nei luoghi più improbabili era possibile vederlo rantolare, lamentarsi, disperarsi, piangere e talvolta gioire. Recitava le sue morti. Una volta sparato, un’altra trafitto da lame e coltelli. Altre volte era una morte tragica e agonica, affranta nei singhiozzi del pianto e dell’addio. Ricordo di averlo visto ridere una volta per la sua morte. Ricordo il suo spegnersi con il sorriso sulle labbra, liberato da un peso. Alleggerito, l’ho visto scivolare giù per il fiume e sparire nella corrente.

Quel giorno del mio ritorno però recitava una morte semplice, una morte senile, naturale. Viveva la naturale cessazione del tempo delle cose, l’attimo del ricordo espresso nella follia confusa della mente. Quasi come alla ricerca di una ultima risposta alla domanda “A che fine?”.

Il mio maestro…Lo faceva sempre. Io, sempre, lo seguivo nel gioco e lo ascoltavo.

“Ragazzo! Sei tornato ad assistere questo vecchio che muore?”

Non dissi nulla. Sedendomi accanto, lui percepii il sonaglio sotto la mia armatura. Mi guardò senza dire niente. Alzò lo sguardo e sospirò come fosse il suo ultimo respiro. Prese solo aria per parlare.

“È solo una recita, è tutto un teatro, uno spettacolo. Si piange e si ride improvvisando un po’ come capita: i lineamenti del volto e la tempra dell’anima si plasmano e si formano sull’inflessione del nostro avere nell’essere”

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La storia dell’avere e dell’essere il maestro la ripeteva sempre. Io non l’avevo mai capita. Avere? Essere? Entrambe le domande si chiudevano nel cerchio della fine? Quale fine che fine? Vivere, soffrire, gioire. Morte? Amore? Si, forse quello. Forse era una risposta chiara che non ho mai imparato ad accettare.

“Sono qui maestro, che posso fare? È  doloroso?”

“Cosa morire?”

“No, la consapevolezza della fine”

“L’unico dolore che provo è il suono della tua anima”

“Ma è rotta maestro. Va un po’ sì e un po’ no. A scatti, a tratti s’illumina. Altre volte devo scuoterla con violenza per accenderla”

Il maestro si girò sul fianco nel peso dello sforzo. “Novizio, ragazzo, quello che ti serve è l’Attore”.

“Attore? Che dici?”

“Dai retta a un vecchio pazzo come me. Trovalo, cercalo questo Attore e il mondo che tu vedi ora buio diventerà, poi,  più triste di come lo vedi ora. Non è detto che tu possa imparare a leggerlo questo mondo e, tra le faglie dell’infinito senso del fine, comprenderlo”

“Tu stai morendo maestro non è così? Mi lasci così? Solo, senza risposte, senza meta? Che farò? Mi lasci con questa follia farneticata?”

Rispose il maestro ritmato dalla tosse “ Si, sto morendo. Sto svanendo non vedi? Il mio corpo si sgretola, la vita mi sfugge. La cucitura dell’anima si strappa. Lo vedo scorrere il mio pensiero, cadere. Al contatto con l’aria i miei pensieri fuggono veloci con il vento, sfiorando la terra si solidificano nell’immagine del ricordo”

In un profondo respiro gonfiò il torace fino al suo limite. Espirò lentamente inclinando la testa verso il viale del viaggio delle sue fughe, dei suoi tormenti e delle sue gioie. Il viaggio di quelle spumeggianti profondità in cui più nulla esiste.

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Io capii tardi che quel giorno il mio maestro non stava recitando. Ci credeva veramente, non stava improvvisando. Proprio sulla ribalta stava dando il suo saluto al suo pubblico. Era il suo ultimo spettacolo.

Io lo vidi congedarsi senza troppo rumore né clamore: composto.

Di lui rimase un piccolo sasso di vetro, tenuto insieme da venature di filo rosso.

Mi rimaneva l’Attore.Questa era la sua ultima volontà.

Ah come piansi!Ah se piansi.